L’Europa di inizio Ottocento è un continente che brucia di contraddizioni. Da un lato il fumo delle ciminiere, la marcia trionfale della Rivoluzione Industriale, il dominio della scienza che pretende di misurare e controllare ogni aspetto dell’esistenza. Dall’altro, il sussurro degli spiriti, la fascinazione per l’occulto, i salotti dove si evocano presenze e si cercano segni oltre il velo del visibile. È l’epoca romantica — e come ogni epoca di transizione, è una soglia.

Dentro questa soglia nasce Frankenstein, e oggi, attraverso lo sguardo visionario di Guillermo del Toro, la creatura torna a parlarci con una voce più umana di quella dell’uomo stesso.

Del Toro non racconta un mostro. Racconta una creatura buona, gettata in un mondo incapace di riconoscerne la purezza. Non è la deformità del corpo a renderla diversa, ma la limpidezza dell’anima. In lei sopravvive ciò che l’uomo moderno ha perduto: la capacità di provare stupore, dolore, compassione.

Mary Shelley, nel 1818, aveva già compreso che l’errore non stava nel creare la vita, ma nel rifiutarla quando non corrisponde al modello che ci rassicura. La sua opera nasce nel cuore della Rivoluzione Industriale, quando la macchina sostituisce la mano e la fede nella scienza si trasforma in nuovo dogma. Eppure, è proprio in quell’epoca meccanica che esplode il Romanticismo, la corrente che cerca l’anima sotto la materia, la magia dietro la logica, la poesia dietro la formula.

Il Frankenstein di Del Toro vive in questo conflitto: è il simbolo della bontà respinta, dell’innocenza che non trova spazio nel mondo dell’efficienza. Il laboratorio che lo genera è una cattedrale profana, illuminata da una luce che imita quella divina, ma non la comprende. La creatura, invece, impara a sentire, a riconoscere la bellezza nel dolore, a desiderare amore pur sapendo che il mondo non lo può offrire.

In questo ribaltamento si compie il messaggio più potente: il vero mostro è chi non sa amare la vita che ha creato. La creatura diventa più umana dell’uomo, più viva del suo stesso artefice, e attraverso la sua solitudine ci ricorda che la diversità è un dono iniziatico, non una condanna.

Del Toro ci mostra che la fragilità è una forma di sapienza. La creatura, nella sua ingenuità, è l’archetipo del “diverso” che non si piega, che continua a cercare il bene anche quando il mondo lo respinge. È l’immagine dell’anima che resta integra mentre tutto intorno si corrompe.

E allora Frankenstein smette di essere un mito gotico e diventa un manifesto spirituale: ci invita a recuperare la nostra parte più pura, quella che il mondo definisce “mostruosa” solo perché non sa comprenderla. Nel suo sguardo ferito, vediamo riflessa la stessa nostalgia che abita ogni essere umano: la nostalgia di essere accolti per ciò che si è, e non per ciò che si rappresenta.

Ed è qui che la riflessione si intreccia con Arcanha. Perché ciò che Del Toro compie sullo schermo — restituire dignità alla diversità — è ciò che accade ogni giorno sulla nostra piattaforma. In Arcanha, la diversità non è un difetto, ma una via di conoscenza. Qui l’anima viene ascoltata nei suoi linguaggi più profondi — nei tarocchi, nei numeri, nelle stelle, nei simboli, nelle voci del destino. Qui la fragilità diventa potere, la ferita si trasforma in rivelazione, e ciò che il mondo chiama “ombra” viene riconosciuto come portale di luce.

Frankenstein, come ogni creatura di passaggio tra mondi, ci insegna che il miracolo più grande non è nascere, ma riconoscersi vivi. E questo è ciò che accade su Arcanha: si impara a vedere oltre la forma, a leggere nell’invisibile, a trasformare la paura in consapevolezza. Perché la vera rivoluzione non è industriale, ma interiore. E la vera umanità non è quella che crea, ma quella che impara ad amare ciò che ha creato.

L’Angolo di Merlino – Arcanha Official Dove il cinema incontra l’anima, e la diversità si trasmuta in luce.

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